Ci sono, a mio avviso, molti modi per approcciarsi al mondo pittorico di Marta Czok. Se guardiamo alla sua produzione figurativa da un punto di vista esecutivo-formale, ci troviamo di fronte al tratto distintivo del suo intervento pittorico, contraddistinto da una sobrietà quasi minimalista del colore, da un’armonia calibrata, direi quasi aurea, tra i vuoti – le campiture monocromatiche – e i pieni figurativi, dall’ammicco grafico che nella Czok declina quasi verso l’illustrazione, dall’abilità del saper fare testimoniato dalla molteplicità di tecniche usate.
Avventurandoci invece nel tentativo di tradurre il poliedrico contenuto simbolico che abita il mondo figurativo di Marta Czok, il percorso di analisi critica si fa più complesso, profondo, pesante e inerpicato e, paradossalmente, anche più… veloce e leggero.
Non c’è una volta che i quadri di Marta Czok non mi strappino un sorriso.
Di quei sorrisi a denti stretti, un sorriso compiaciuto che nasce dal riconoscere sempre in lei un’intelligenza vivace, acuta, in grado di creare un pirotecnico cortocircuito.
Perché l’ironia, da sempre tratto distintivo dell’autrice, non è il mero evidenziare i non sense, quelle idiosincrasie morali e culturali che digeriamo in virtù di un possibile tornaconto.
No, la faccenda è molto più seria. Marta Czok è intellettualmente iconoclasta, o meglio, la sua è un’intelligenza trasversale e libera che sa cogliere il paradosso, il grottesco, il sublime, lo scandaloso nella semantica simbolica del linguaggio.
Non paga di aver colto con il suo occhio vigile e profetico, ci mostra lo sberleffo e lo fa prima di tutto con il suo grande talento artistico, poi con il suo deflagrante acume intellettuale.
Perché Marta è iconoclasta? Ad esempio perché rompe gli schemi del politically correct in ambito filologico ed epistemologico. Nel suo ripercorrere un tema – abusato e presuntuoso – come la storia, Marta porta la sua freschezza e la sua leggerezza ponendo sullo stesso piano la storia e la favola. Mescola i tempi storici con i tempi mitici e favolistici con una grazia che lascia basiti.
Che dire, ad esempio, quando dal Cavallo di Troia, invece di Ulisse, fa irruzione Pinocchio in Pinocchio on a Trojan horse?
Czok vive nella contemporaneità e ama attualizzare il tempo storico: ecco allora un’ultima cena diventare una grigia in Last Supper. Fotografia sociale in cui è facile riconoscere la solitudine post borghese; laddove il tozzo di pane non è più elemento religioso eucaristico ma diventa conflitto economico simbolico. La cifra su cui si ci scanna: per un tozzo di pane, appunto.
Un agire e un pensare estremamente femminile, quello di Marta Czok, artista che insegue le intuizioni quasi fossero luci, scie luminose che tutto attraversano e senza alcuna soggezione. Il potere non è un deterrente, anzi, Czok lo smaschera: è grottesco, volgare. Tragico.
Meglio volgere lo sguardo altrove.
E se la fiaba fa ancora capolino con i dipinti Rapunzel e The frog prince, a fianco della rassicurante casa dei giocattoli troviamo però la Fatina Stufa: una fatina azzurra che tenta di strozzare Pinocchio. Come darle torto? Quanta pazienza con tutti questi bugiardi!
In queste vere e proprie irruzioni sceniche, Czok si muove come un regista, da sceneggiatrice di possibili altri mondi.
In questo senso interagisce con deviazioni sceniche non soltanto sul tempo storico e sul tempo mitico, ma interferisce creando un altro mondo, quello dell’impossibile.
In questa prospettiva la fatina azzurra fa da apripista per la lettura di sue opere come “altre possibilità”: in Note for Leo abbiamo la Monnalisa che viaggia nel tempo e ci mostra un volto e una acconciatura di una donna che potrebbe appartenere all’epoca moderna.
Così anche per Madonna, dove l’immagine iconica si moltiplica fino a irradiare di sacralità tutto il femminile.
La sua produzione è così ardita che tange l’allegorico e il caricaturale: Un Napoleone qualsiasi è l’allegoria dei tempi moderni che Czok dipinge impietosa, senza concedere nulla: né alla critica né alla retorica tanto meno al sentimentalismo spicciolo.
Soprattutto quando approda a temi “pericolosi” come gli eccidi, i genocidi, la guerra.
In questo suo procedere asciutto e rigoroso sta, a mio avviso, la potenza espressiva della pittrice. Eppure, come dicevo, non c’è una volta che Marta non riesca a strapparmi un sorriso.
Perché è così irriverente, o forse dovrei dire così onesta e così coraggiosa, da inglobare anche se stessa nella feroce critica, impietosa.
Mi piace chiudere questo mio breve scritto con l’immagine che meglio di tutte riassume la straordinaria e lucida ironia dell’artista: una massaia, forse una cameriera, una donna piuttosto grassa e dall’aria truce (quando la guardo mi viene in mente una macellaia)… ecco, la donna si gira verso un ipotetico interlocutore fuori campo e fumettisticamente esclama: “You call that Art?”
E il sorriso a denti stretti scroscia in una cristallina risata.
Barbara Codogno