Testi critici

L’identità negata: arte sul filo della memoria

Dopo Guernica di Pablo Picasso, grido d’orrore dipinto nel 1937 immediatamente dopo il bombardamento aereo della città basca e simbolo profetico di un’umanità crocifissa, la risposta dell’arte agli orrori perpetrati dall’uomo verso l’uomo e verso la Natura è apparsa intrisa di drammaticità espressiva, rasentando il muro altissimo e desolato che aveva, con la guerra, racchiuso la storia in un confine interiore che non poteva offrire vie d’uscita estetiche.
Certamente, la drammatica esemplare risposta informale di Fautrier, l’innocenza crudele della carne materica dei suoi Otages, bene pose gli artisti in guardia da una festa dell’arte, dimenticando le tracce dei passati orrori in favore di una risorta gioia di vivere.
Come la resurrezione di uno spirito senza forma, che penetrava il disordine espressivo opposto al Realismo di matrice politica, o il bacino errante del popolo umano che in Chagall vedeva l’Esilio del Creatore, ponevano la mente allertata verso un’espressività tesa nella riflessione interiore.
Erranza dell’arte e sconfitta, di fronte alla necessità di mostrare o esprimere senza furor politico e a fresco la densità dell’immane tragedia tangibile nelle macerie ancora avvolte di brina di morte.
È stata la sedimentazione lenta e il costante lavoro dei sopravvissuti a edificare il più significativo monumento all’Olocausto, un testamento vivente fatto di volti, di fatti e di parole che hanno abbattuto la scia di silenzio lasciata da un muro teologico insufficiente a offrire risposte.
Così è cresciuta generazione dopo generazione, una nuova umanità che ha ritrovato il colore della vita, espiato il peccato dell’idolatria politica e che nella memoria ha ritrovato la strada seppure drammatica di conoscere, capire e insegnare a vivere nel ricordo di tutti coloro che in ogni epoca della storia sono stati marchiati e cancellati da incomprensibili ragioni ideologiche.
Il problema della relazione arte-memoria ha il suo cuore nel nucleo più profondo della storia. E qui si rivelano i suoi percorsi velati come il suono dei versi poetici, rarefatto dissolversi nella memoria di quanti mancano all’appello: pesanti come le foglie/facce metalliche di Menashe Kadishman, insensibili alla aerea natura del vento, forgiate e adagiate nell’identità dello spazio minimale ferrigno berlinese di Libeskind.
Un silenzio eternale animato da ri-flussi di angoscia, quello del visitatore della storia. Indescrivibile orrore che ha visto, ma non vissuto.

Marta Czok pone una condizione diversa a chi accosta le sue testimonianze interiori. Nella sua pittura si avverte un richiamo al mondo irrecuperabile di chi perse la favola della vita nel momento in cui l’immaginazione è la stupita essenza della vita quotidiana. Un battito d’ali che frulla nel senso tragico della perdita della condizione labirintica e creativa dell’aurorale dimensione dell’infanzia.
Attualità tragica nel nostro immediato presente, quando più veloce appare la dissipazione del patrimonio immaginativo ben presto cancellato da una razionalità invasiva e aggressiva che abbrevia le distanze fantastiche, correndo verso le certezze del ruolo sociale.
Il percorso espressivo di Marta Czok, costruito su un gioco di identità linguistiche come la sua biografia, libanese-polacca-anglo-latina, attraverso l’ironia espressionista ereditata dal mondo fiammingo, suggellata da una sottile capacità di segno grafico, si rivela in un costante gioco speculare di immagine sottratta alla sua fonte originale. Un dialogo del pensiero che acquista la forza in essere dell’evidenza, rarefacendosi sino a materializzarsi in una forma sfuggente: questa la cromia iniziale dell’infanzia nello spettacolo spettrale di un mondo in bianco e nero.
È lo stupore che leggiamo negli occhi dei bimbi mentre costruiscono il loro mondo di fiaba, in cui sempre un’ombra sinistra da lanterna magica, allunga la notte, come nei fotogrammi di Bergman, immagine di una paura sopita ma vigile, traccia di una memoria lasciata alla deriva.
Ed è l’aspetto seriale delle immagini che, aspirando a una crescita che si interrompe ogni volta, naufraga in un silenzio implosivo che non lascia spazio all’emozione. È una secchezza stilistica da racconto kafkiano, un’attesa di risposta che non arriva ad alcun compimento.
E ci rendiamo consapevoli che siamo a contatto con l’involucro più interno dell’arte, elaborazione visiva di un pensiero che riflette nella durezza delle certezze il drammatico risvolto di una traccia della memoria collettiva.
La cancellazione dell’identità è il filo sottile che lega la memoria della storia dell’infamia, come non mai perpetrata nell’ultima guerra nazifascista. Cancellazione psicologica dei recenti passati regimi sovietici, oppure avversione per l’identità stessa, normalizzazione teologica da società ideale, crociate avviate contro l’espressione spirituale e legale di sé: da tutto questo ci fissa ancora lo sguardo della denuncia immota dei bambini dei lager e del ghetto di Varsavia, come della Roma Città aperta silenziosa e sofferente all’ombra di una croce immensa, imbrunita dalla melma del fascismo.
Memoria che stride sul vetro raschiato tracciando un messaggio di angoscia trascritto nell’invisibilità immensa della morte.
Ciò che appare dalle opere di Marta Czok è l’essenziale cifra grafica necessaria all’espressione di una delicata verità, messa a contatto con un mondo visitato dentro di sé, attraversando il riflesso inafferrabile della memoria. Strutture che parlano dell’istante in cui ogni senso scompare assieme alla vita negata, dall’attrezzo di guerra alla doccia al cianuro, trionfi eretti sul limite posto alla crescita libera, in cui l’amore per il mondo che l’infanzia ha in sé lascia il posto all’inesprimibile sgomento della solitudine.
Mai sconfitto, il sogno di vivere e di crescere riappare.
Torna alla mente la storia di Brundibar l’operetta praghese in musica scritta nel 1938 da Hans Krása su libretto di Adolf Hoffmeister ripresentata dopo varie vicende alla Croce Rossa il 23 giugno 1944, dai nazisti a Terezìn per mostrare il “programma di abbellimento” o come in un documentario qui realizzato, la benevolenza del Führer che “regala una città agli ebrei”, assieme alla munificenza nazista verso l’infanzia, che si rivelerà nello sterminio ad Auschwitz di tutti i musicisti e gli interpreti. Saranno l’alleanza di un gatto, di un passerotto e di un cane e l’aiuto di tutti i bambini della città che interverranno in favore di Annika e Pepíçek, intenti a cercare latte per la mamma ammalata, a sconfiggere l’infido mendicante suonatore d’organetto Brundibar, personaggio che lascia bene intendere dove si cela l’infernale progetto di asservimento al lavoro e alla morte.

La mamma fa dormir il caro suo tesor,
la culla dondola pensando al suo amor.

Poi verrà il giorno
quando il bell’uccellin
se n’andrà, volerà,
lascerà il suo nido.
Gli alberi crescono,
nuvole corrono,
gli anni in fretta passano.

Mammina, guardaci, siamo cresciuti ormai.
Pensa, rammenta i vecchi tempi se vorrai.
Il bagnetto facevam,
nel mastello eravam:
un bambin sì piccin e la sua sorella.
Gli alberi crescono,
nuvole corrono,
gli anni in fretta passano.
La mamma avanti va,
vuota la culla sta,
pensa al futuro quando nonna poi sarà.

Un vuoto che non lascia rimpianti tanto è reale e tangibile la memoria dell’identità immediata legata all’assenza di futuro. Non solo nella morte, ma specialmente nel trauma di continuare a vivere, come sopravvissuti e testimoni.

In questa identità di memoria crediamo sia sotteso uno dei sensi dell’arte: poesia, arte figurativa, musica che non allieta le corti di potenti e tiranni, ma che vela sotto un rimando infinito la silenziosa musica segreta che anima la vita, anche se al di là della vita.
Così come ha scritto il grande direttore d’orchestra Karel Ancérl internato e sopravvissuto a Terezìn:

“Ho sperimentato che la potenza della musica è così grande da poter portare nel suo regno qualunque essere umano che possieda un cuore e una mente aperta, da rendere possibile sopportare le più terribili ore della propria esistenza”.

Roma, dicembre 2008

Cesare Terracina

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