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Mother Rome di Marta Czok

Una riflessione sulla città eterna vista attraverso l’occhio ironico e divertito di Marta Czok, artista senza radici, cittadina del mondo, la cui ricerca segue l’umanità, le sue pulsioni, i suoi vizi, i suoi contorcimenti. E, come se guardasse una Babele moderna o un cofanetto pieno di prelibate caramelle che a tutti fanno gola o un gatto sornione che si stiracchia al sole, Marta Czok osserva Roma e la dipinge.
La osserva sì, ma in realtà la conosce molto bene questa città che l’ha accolta e dove ha messo radici con la sua famiglia, pur avendo scelto – o forse proprio per questo scegliendo – di viverle non “troppo accanto”.

Il suo sguardo sarcastico, tradotto in una pittura di raffinata precisione, è un’istantanea. Un titolo di giornale. Un pezzo di cronaca. Un fotogramma di un film. Un racconto racchiuso in un quadro. Un racconto che non risparmia neanche i vizi della curia romana o più genericamente della Chiesa, che pure con papa Francesco sta vivendo un momento fortemente riformatore che troppo spesso deve fare i conti con una realtà consolidata nel tempo.
L’ingordigia di un clero che vuole “dividersi la torta” si trasforma in un quadro di imperdibile leggerezza, graffiante ironia e dolorosa verità (Temptation, acrilico e grafite su tela , 2013).

È così che l’arte di Marta Czok va controcorrente. Si stacca dalle ricerche contemporanee sull’uso di materiali e linguaggi innovativi e punta dritta dritta al recupero della tecnica e di un messaggio condiviso. E così, paradossalmente, taglia per prima il traguardo della ricerca, di una visione a lungo raggio, di una preveggenza estetico-contenutistica che troppo poco sinora le è stata riconosciuta.

Ho avuto modo di scrivere per la mostra al Palazzo Sforza Cesarini di Genzano (2015) che “l’arte di Marta Czok suona la sveglia. Emoziona e lascia il segno. E dice ciò che nessuno vuole ascoltare. Il suo linguaggio è stratificato. Non solo nella tecnica, anzi nelle tecniche, che padroneggia. Il messaggio composito e la sua decrittazione sta a chi si trova davanti alla tela”. L’ho scritto e lo ribadisco. Ed è tanto più vero in questa mostra che corre sul filo della “cronaca giubilare”. Ecco il totem Roma (acrilico e grafite su tela, 2015) opera alta 2,40 metri, dipinto su tele sovrapposte: pensato site specific per il Museo Carlo Bilotti, rappresenta la Roma dei monumenti, sullo sfondo, ma anche quella delle palazzine, in primo piano. La Roma delle manifestazioni sindacali e quella del popolo dell’angelus. La Roma dei turisti e quella dei nuovi vitelloni. E giù, giù nei sotterranei, quella delle vestigia archeologiche, quella di una maestosità romana che oggi sembra essere irrimediabilmente persa.

Quella maestosità che promana invece da opere come il Colosseo (Roma kaput mundi, acrilico e grafite su tela, 2010), ritratto a volo di uccello, o i volti di Cesare (Life of an average Caesar, acrilico e grafite su tela, 2011): qui la figurazione occupa solo una piccola parte delle tele per la maggior parte dominate dal grigio e da un orizzonte rosso fosco, tramonto non di un solo giorno ma di un’intera epoca.

Sono le “opere della romanità” che dialogano con la Collezione Bilotti e in particolare con il nucleo delle opere di Giorgio De Chirico, esposte nella grande sala del primo piano, e tra queste certamente gli Archeologi Misteriosi ( 1926) e i Mobili nella Stanza ( 1927), ma anche l’Autoritratto con testa di Minerva, degli anni Cinquanta, in cui il pictor optimus indossa un abito veneziano, proclamando la necessità del recupero della tradizione pittorica italiana.

E proprio questo fanno in fondo le opere di Marta Czok, come fossero invettive di un laudator temporis acti, documenti in cui la perfezione formale e stilistica si fonde con un linguaggio ad un tempo aulico e contemporaneo con inserti pop (come in questo What for?, acrilico e grafite su tela, 2010).
Proprio questa vena di critica pop, che si ritrova anche nello spettacolare polittico che raffigura le Chiese di Roma (acrilico e grafite su tela, 2015), e che tuttavia non può non avere un forte valore simbolico, emerge con la consueta ironia e sagacia nell’arte di Marta Czok ed è protagonista delle opere esposte nella galleria dei ritratti. Ancora una volta, queste tele dialogano con la Collezione Bilotti. Qui infatti sono collocati i ritratti di Tina e Lisa Bilotti di Andy Warhol (1981), di Carlo con Dubuffet sullo sfondo di Larry Rivers (1994) e di Carlo e Tina Bilotti di Mimmo Rotella (1968).

A fare da contraltare a queste opere, vengono esposti i cosiddetti “Trittici familiari” firmati da Marta Czok. Qui la pittrice si diverte a unire il “sacro con il profano”: la tradizione pittorica del grande rinascimento di Piero della Francesca e dei Duchi di Urbino con i tempi moderni del punk, appunto (Times change, acrilico e grafite su tela, 2014), realizzando una piccola indagine sociale che scandaglia non solo la nuova realtà delle famiglie ma anche delle relazioni amorose (The o-ho triptyc, acrilico e grafite su tela, 2014).

Queste tele mettono in evidenza la capacità di Marta Czok di passare da un registro all’altro. E soprattutto la sua destrezza di virare dal ritratto alla caricatura. E a guardarli bene sono ritratti in senso lato anche le facciate delle basiliche romane. È il volto della Mother Rome del titolo dell’esposizione, che si caratterizza dunque per essere un percorso lungo i secoli dell’arte, della storia, del costume, alla ricerca dell’essenza di questa città, succhiata da ogni genere di sanguisughe, come mostra l’opera L’albero della vita (acrilico e grafite su tela, 2015).
Una Roma-madre, derubata e dilaniata da figli senza morale. Per lei gli sguardi di un’altra madre sofferente, quella Vergine pura, eterea – simbolo di misericordia in quest’anno giubilare – che si confronta e tiene testa al buio del mondo che preme e tenta di scalzarla dalla tela (Virgin faces, acrilico e grafite su tela, 2010).

 

Diana Alessandrini

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Antologica di Marta Czok

Curata da Laura Cavallaro nella spettacolare cornice del restaurato castello di Calatabiano in provincia di Catania si è aperta la mostra antologica della pittrice polacca Marta Czok.
Dal 19 luglio al 7 settembre 2014 sono in parete quadri che visivamente avvalorano le sue parole quando dichiara che non ha mai riflettuto sulla sua personalità artistica: “Non sono sicura di averne o di volerne una”.
In rassegna le opere dialogano in modo surreale con le cose quotidiane, conservando quei piccoli segreti che la vita riserva ai comuni mortali, pregni di poesia e altre volte gonfi di una drammaticità che soltanto il vivere può offrire e malinconicamente regalare.
Alla vernice era presente, oltre alla curatrice e alle autorità regionali e locali, il direttore del MacS (Museo Arte Contemporanea Sicilia) Giuseppina Napoli che ha aperto l’evento con parole scevre da ogni circostanza, offrendo al pubblico una chiave di lettura originale quanto sapiente: “Con acuta ironia e delicata poesia – annuncia la dott.ssa Napoli – Marta Czok raffigura nelle sue opere lo scorrere della vita. Sulla tela prende forma la messinscena dell’umanità e l’artista, da regista consapevole ed illuminata, lascia intuire cosa si nasconde dietro le luci del palcoscenico”.
Nata in Libano nel 1947 da genitori polacchi, giovanissima si trasferisce a Londra e si muove nel mondo fino in Italia. Marta è una viaggiatrice, nei luoghi e nei tempi. La sua pittura è un’indagine culturale, quasi antropologica, dell’umanità.
“L’artista riesce a coniugare il suo sentire identitario con la forza espressiva della figurazione, stimolando così la comunicazione e la partecipazione sensoriale dello spettatore che diviene esso stesso metafora satirica del sistema sociale in cui vive e domina o, al contrario, dal quale è dominato”: così annota Laura Cavallaro in “L’estetica dell’esistenza nei dipinti di Marta Czok”.
La mostra è superbamente allestita, indubbiamente bella e preziosa, e quel che più conta unita stilisticamente. La pittrice  rivela una forte personalità in contrasto con quanto a bella posta, crediamo, enuncia con le sue parole di rottura, quasi sempre anticonvenzionali: “Non sono come quei pittori che si travestono per sembrare ‘artisti’. Tutto quello che sono è nei miei dipinti, quindi non sento il bisogno di apparire o parlare come un ‘artista’. Immagino che sotto sotto sono una rivoluzionaria e la mia battaglia è contro il ridicolo abuso di potere, che sia per mano dello Stato o della Chiesa, ed è tutto nei miei dipinti, anche se a volte lo inserisco in  modo cauto e delicato”.
Nelle sue annotazioni si leggono ancora parole di monito: “È vero, nessuno oggi viene bruciato sul rogo, ma cosa potrebbe accadere domani? Vorrei che le persone che guardano i miei dipinti si divertissero, si sentissero più potenti e mai sole. Ci sono molte persone là fuori che la pensano come me ma non hanno né il tempo né l’occasione per dire la loro. Spero di essere la loro portavoce, anche se solo sulla tela”.
La responsabilità dell’artista è dare al suo pubblico qualcosa che valga la pena possedere. Bisogna ricordare che la gente è intelligente e perspicace e che l’arte non diventa arte solo perché lo dice l’artista. Non basta appendere qualcosa in una galleria e illuminarla per bene per trasformarla in arte: “sarebbe come prendere in giro quelli che vengono a vedere questi lavori”.
La vera arte fa crescere l’anima del pubblico e “una scopa illuminata, per quanto costosa e per quanto lodata da critici e curatori di musei non riuscirà mai a farlo”.
Articolo originariamente apparso su Rinascita

Guerrino Mattei

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L’estetica dell’esistenza nei dipinti di Marta Czok

Dipingere l’esistenza, così come raccontarla, significa accettare di essere costantemente attratti da una molteplicità di visioni, da una fonte inesauribile di fatti, azioni e personaggi che si incontrano o si cercano sul palcoscenico della vita. Significa fare della propria mente un laboratorio alchemico in cui sentire, silenziosamente o rumorosamente, quell’imminente apparizione che si presenta a noi quando siamo pronti a (ri)conoscerla ed a (ri)conoscerci con essa. Significa accettare che quanto abbiamo dipinto ha un peso, ancor più aggravato dalla sua riconoscibilità.
Marta Czok dipinge l’esistenza.
Il suo occhio, come un’implacabile lente d’ingrandimento scruta scene di ordinaria quotidianità; la sua mano, strumento coraggioso, le fissa rigorosamente sulla tela, strappandole, per salvarle forse, all’aberrante consuetudine di uno sguardo che non vede e che, inesorabilmente, è costretto all’abitudine.
Illustrazioni apparentemente semplici, ingenue, naif, senza superflui orpelli ma agghindate solo da una sana ironia e dal fascino di reminiscenze talora medievali e fiamminghe, talora di ascendenza anglosassone. Vignette spesso sfuggevoli ed inafferrabili nei temi che si svelano solo a chi ha la stessa smania di comprendere e non ha paura di scoprirne i significati. Significati raccontati con l’urgenza di comunicazione di chi vive il contemporaneo ma parla di fatti senza tempo, attuali ed attualizzati, come se li sussurrasse all’orecchio.
Quello di Marta Czok è un mondo di personaggi e cose visitato dapprima dentro di sé, alla stregua di un sogno, di un’epifania generata dall’ecclettica fantasia di un’artista bambina e rivisitato, poi, dalla sensibilità e dal vissuto di una donna che la vita ha forgiato artista adulta e matura. Di origini polacche, venuta al mondo nel 1947, Marta Czok riesce a coniugare il suo sentire identitario con la forza espressiva della figurazione, stimolando così la comunicazione e la partecipazione sensoriale dello spettatore che diviene esso stesso metafora satirica del sistema sociale in cui vive e domina o, al contrario, dal quale è dominato.
Così, questa mostra antologica di Marta Czok racchiude opere come “Un Napoleone qualsiasi” (1991), “The cake makers” (2004), “Robot” (2007), “Miracle solution” (2012), circa un ventennio, o poco più, di produzione artistica, in cui descrivere una molteplicità di istanti, immagini e significati, di intimità e di universalità. Un repertorio in cui il tratto preciso dell’acrilico e dell’olio si sposa con il segno più nebuloso del carboncino e della grafite, in cui personaggi dai volti ilari, dalle espressioni stranite e dai corpi torniti e pieni, convivono con più magre e seriose figure ed in cui lo spazio si fa, per vuoti e pieni, ma in esso ogni cosa vi trova il suo posto.
Marta Czok dipinge l’esistenza ed il suo sentire è in mezzo. È lungo quel labile confine tra esistenza e non-esistenza, tra reale ed irreale, tra metafisiche e metaforiche realtà e potenti aneliti di denuncia e di speranza. È lungo quel confine che siamo anche noi, spettatori, straniti e consapevolmente straniati dal dispiegarsi davanti ai nostri occhi di un’opera d’arte.

di Laura Cavallaro

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Social commentary: the paintings of Marta Czok (NY Arts Magazine)

Timelessness can be translated as the quality of being eternal, ageless, immortal, or not affected by time. This sense of perpetual time is evident in the insightful work of Marta Czok. In Czok’s paintings there is a sense of profound mystery as figures are bracketed and framed by adjacent solid color canvases. These adjoining canvases create a cinematic quality that distills time and evokes a feeling of suspension. This suspended void, as it were, allows for a stage or platform in which figures act out a plethora of human expressions. Marta Czok’s work invokes a world full of wondrous insights into the many facets of humanity. The way she illustrates towers, machines, mannequins, and the human figure is evocative and compelling. Each painting reconstructs a narrative that has specificity but also universal appeal. With irony, wit, satire, and warmth she creates work that touches on personal and political sentiments with great poignancy.

Czok was born in Beirut, Lebanon in 1947 and has a multicultural background being British/Italian of Polish origins. Her early life involved moving around quite frequently. Her Polish parents were in the Middle East after having managed to escape the USSR where they had been prisoners of the Soviets. While Czok was an infant, her family moved to the UK where she received her formal education. Interestingly enough, it was later in life that she found her voice as a painter. She states, “I turned to painting after I finished my studies at Central St. Martins College of Art and Design in London where I did a BA Course in Fashion and Textiles. In fact, on arrival in Italy in 1974, I worked for some time as a dress designer for various fashion houses and it was only when my daughter was born and I saw the world for the first time as it really was and not as I hoped it might be, that I finally dropped designing work altogether and concentrated full time on painting.” This turning point is incredibly telling in terms of her thought process. Czok’s work has a direct relationship to her immediate world. When her formal propositions are posited against one another, they form a visual compendium of thoughts and reflections of a particular moment in time. Take for instance her work entitled Tank. In the center of this medium sized canvas lies a beautifully rendered yet enormously threatening tank. On both sides of the canvas are adjacent canvasses that have been butted up against the central canvas. On the left hand side are two flat colored canvases, both a deep crimson red and on the other side a pale blue. Underneath the tank is a long horizontal band of light gray. In the center of this gray expanse lies a small photographically rendered portrait of a young girl on a vintage bicycle. An arrow connects the image of the girl and the tank in a dialectical manner. By connecting these five panels and disparate images in this fashion, Czok implores us to read this painting synchronically and diachronically. The red panels seem to be symbolic of the residue of war, namely blood and death. The opposite panel being a pale blue inspires a bit of hope, it hints at the potential for peace. The images in the center highlight two modes of transportation, two manned machines. One machine, the tank, is made for destruction and war the other, a bicycle, for joyriding and transit. Czok’s tank in all of its gruesome detail is a baroque manifestation of power. She has also rendered the image in such intricacy, drawing the viewer inside into its mechanical engineering. A cacophony of gears, spindles, pistons, and guns, serve as a viscous reminder of its potential. In contrast, the young girl on the bike is a symbolic representation of what war destroys, specifically innocence and freedom. When paralleled, the subtlest image, that being the girl, is actually the most powerful. Czok’s painting also shows us how Western cultural priorities are out of order. Countries spend trillions of dollars updating and expanding their military advantage, yet often at the expense of their most valuable asset, humanity. When considering this painting I couldn’t help but be reminded of the aftermath of the Holocaust. Czok has addressed this tragedy in a recent body of work. For about three years she devoted a series of paintings to children in the war and the holocaust. The resulting exhibition has already been on show in Rome and Padua and is slated for Ferrara some time in 2012. In the aftermath of the Holocaust, many of the survivors sought shelter in displaced persons camps provided by the Allied powers. The girl pictured in this painting could be one such displaced person, one of the countless individuals who have been victims of atrocity. With incredible tension, Czok’s moving work embodies the displacement that occurs through unnecessary aggression, reminding us that displacement is not only physical but also psychological.

Marta Czok, Historians, Acrylic, graphite and Indian Ink on canvas 50×50 cm, 18 x 24cm, Courtesy of the artist.

One conclusion that we can draw from this work and others is that Czok is a realist. She states, “My chief aim was, if not to save the world, then at least to tell all and sundry what, precisely, I thought of it – and what better way if not through painting?” And it would seem that painting is a medium that suits her well. In another work, entitled Historians, Czok creates a witty commentary on history and our insatiable need to canonize, record, and document it. Based on Peter Bruegel the Elder’s painting entitled The Blind Leading the Blind, (1568); Czok uses a grayed palette in this work and incorporates two panels that form a table or shallow stage. Five men wearing dunce caps form a humorous party. In a line, they pull one another towards the edge of the platform. From the far edge of the canvas, the party seems to disappear into the softened, grey background. As the band moves closer to us their contours become more defined and linear. At the very edge of the stage stands the party leader happily assuming a position to leap into the void below. He smiles as an arrow points down into nothingness, it reads “hello again.” Here, history is literally about to repeat itself, as this grouping seems to be the blind leading the blind. Careless, lost, and almost jolly, the figures are archetypal stand-ins for all of humanity. In their capes and formal attire they also seem to have a certain pride, yet their dunce caps belie their false confidence. Again, Czok creates a stunning tableau replete with exquisitely rendered figures. Her use of a muted palette highlights the narratives she creates; it allows us to focus on her point of view in a very direct manner. So often history is written by those in power and skewed to fit ideological rhetoric. Czok displays these characters, as they really are, self-appointed individuals without any concept of where they’ve been and where they are going. With this piece, I couldn’t help but reflect on the idea that Western civilization often continues to advance technologically at the expense of our current environment. We are typically too far into the muck of a situation before we stop to consider its trajectory and the affect of our so-called advances. The philosopher and cultural critic Jean Baudrillard claims that Western society in particular has effectively dropped out of the grand narratives of history. He contends that we are no longer active participants in shaping society towards a larger end goal. Yet, he also feels that we are incredibly aware of this fact. Due to globalization, our enlarged understanding of humanity means that we will continue to play out an illusory ending in a hyper-teleological way — acting out the end of the end of the end, ad infinitum. In Czok’s painting this tragic-comic stage is a metaphor for our propensity to play out endings and beginnings without a sense of ultimate direction.

Czok’s most personal and perhaps most intimate painting is entitled Sleeping Beauty. This painting is split into two sections, one a deep gray, the other a pale, whitish gray. In the lower half of this work, a male figure rests peacefully. The delicacy with which this painting is rendered is quite something. The white folds of the bed have a beautiful translucent quality rendered in a deft, painterly manner with sweeping brushstrokes. From an aerial perspective, we view this intimate setting from a higher vantage point. In this work the viewer can almost locate the time of night, it appears to be before 4 a.m., when dawn usually begins to slowly turn its head. There is an incredible sense of familiarity that Czok has with her subject evidenced by the delicate paint application and close proximity. The title is also an indicator of the sentiment she places in relation to the sleeper. In this wonderfully sensitive work, Czok relays a poignant message of closeness, warmth, and affection. One is reminded of Egon Schiele’s languid sleeping lovers or solitary nudes. Yet in contrast, Czok’s work does not have an erotic overtone. Rather, this portrait is a devotional piece that conveys a sense of profound affection. As I viewed this painting, Walt Whitman’s “Sometimes With One I Love” came to mind. Therein he states

Sometimes with one I love I fill myself with rage for fear I effuse
unreturned love,
But now I think there is no unreturned love, the pay is certain one
way or another,
(I loved a certain person ardently and my love was not returned,
Yet out of that I have written these songs.)

Love fulfilled or unrequited, the payoff is in having loved and the beauty shared therein. In this work it is clear that Czok is a realist yet romantic. She wants her works to have certain qualities about them that provoke thought and reflection. When we pay attention, certain messages resonate on profound levels. She states, “I want my work to have an aesthetic quality, a work of art must have meaning, a work of art must ‘speak.’ Finally— and most importantly—a work of art must inspire the viewer to walk taller, be nicer, have more mercy, not to lose hope.” This painting by Czok conveys a strong message of the bond that two people create and inspires us to love more fully.

Marta Czok has created a spectacular oeuvre of paintings using soft, muted colors that create interesting juxtapositions in conjunction with her detailed graphite work. Her use of several panels and negative space encourages the viewer to see her paintings as cinematic narratives. Czok’s work is comprised of thought-provoking expressions of political and personal import. Each one of her paintings conveys a compelling story that highlights singular moments of perception in a visually stunning fashion.

Jill Smith

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La lucida ironia di Marta Czok

Ci sono, a mio avviso, molti modi per approcciarsi al mondo pittorico di Marta Czok. Se guardiamo alla sua produzione figurativa da un punto di vista esecutivo-formale, ci troviamo di fronte al tratto distintivo del suo intervento pittorico, contraddistinto da una sobrietà quasi minimalista del colore, da un’armonia calibrata, direi quasi aurea, tra i vuoti – le campiture monocromatiche – e i pieni figurativi, dall’ammicco grafico che nella Czok declina quasi verso l’illustrazione, dall’abilità del saper fare testimoniato dalla molteplicità di tecniche usate.
Avventurandoci invece nel tentativo di tradurre il poliedrico contenuto simbolico che abita il mondo figurativo di Marta Czok, il percorso di analisi critica si fa più complesso, profondo, pesante e inerpicato e, paradossalmente, anche più… veloce e leggero.
Non c’è una volta che i quadri di Marta Czok non mi strappino un sorriso.
Di quei sorrisi a denti stretti, un sorriso compiaciuto che nasce dal riconoscere sempre in lei un’intelligenza vivace, acuta, in grado di creare un pirotecnico cortocircuito.
Perché l’ironia, da sempre tratto distintivo dell’autrice, non è il mero evidenziare i non sense, quelle idiosincrasie morali e culturali che digeriamo in virtù di un possibile tornaconto.
No, la faccenda è molto più seria. Marta Czok è intellettualmente iconoclasta, o meglio, la sua è un’intelligenza trasversale e libera che sa cogliere il paradosso, il grottesco, il sublime, lo scandaloso nella semantica simbolica del linguaggio.
Non paga di aver colto con il suo occhio vigile e profetico, ci mostra lo sberleffo e lo fa prima di tutto con il suo grande talento artistico, poi con il suo deflagrante acume intellettuale.
Perché Marta è iconoclasta? Ad esempio perché rompe gli schemi del politically correct in ambito filologico ed epistemologico. Nel suo ripercorrere un tema – abusato e presuntuoso – come la storia, Marta porta la sua freschezza e la sua leggerezza ponendo sullo stesso piano la storia e la favola. Mescola i tempi storici con i tempi mitici e favolistici con una grazia che lascia basiti.
Che dire, ad esempio, quando dal Cavallo di Troia, invece di Ulisse, fa irruzione Pinocchio in Pinocchio on a Trojan horse?
Czok vive nella contemporaneità e ama attualizzare il tempo storico: ecco allora un’ultima cena diventare una grigia in Last Supper. Fotografia sociale in cui è facile riconoscere la solitudine post borghese; laddove il tozzo di pane non è più elemento religioso eucaristico ma diventa conflitto economico simbolico. La cifra su cui si ci scanna: per un tozzo di pane, appunto.
Un agire e un pensare estremamente femminile, quello di Marta Czok, artista che insegue le intuizioni quasi fossero luci, scie luminose che tutto attraversano e senza alcuna soggezione. Il potere non è un deterrente, anzi, Czok lo smaschera: è grottesco, volgare. Tragico.
Meglio volgere lo sguardo altrove.
E se la fiaba fa ancora capolino con i dipinti Rapunzel e The frog prince, a fianco della rassicurante casa dei giocattoli troviamo però la Fatina Stufa: una fatina azzurra che tenta di strozzare Pinocchio. Come darle torto? Quanta pazienza con tutti questi bugiardi!
In queste vere e proprie irruzioni sceniche, Czok si muove come un regista, da sceneggiatrice di possibili altri mondi.
In questo senso interagisce con deviazioni sceniche non soltanto sul tempo storico e sul tempo mitico, ma interferisce creando un altro mondo, quello dell’impossibile.
In questa prospettiva la fatina azzurra fa da apripista per la lettura di sue opere come “altre possibilità”: in Note for Leo abbiamo la Monnalisa che viaggia nel tempo e ci mostra un volto e una acconciatura di una donna che potrebbe appartenere all’epoca moderna.
Così anche per Madonna, dove l’immagine iconica si moltiplica fino a irradiare di sacralità tutto il femminile.
La sua produzione è così ardita che tange l’allegorico e il caricaturale: Un Napoleone qualsiasi è l’allegoria dei tempi moderni che Czok dipinge impietosa, senza concedere nulla: né alla critica né alla retorica tanto meno al sentimentalismo spicciolo.
Soprattutto quando approda a temi “pericolosi” come gli eccidi, i genocidi, la guerra.
In questo suo procedere asciutto e rigoroso sta, a mio avviso, la potenza espressiva della pittrice. Eppure, come dicevo, non c’è una volta che Marta non riesca a strapparmi un sorriso.
Perché è così irriverente, o forse dovrei dire così onesta e così coraggiosa, da inglobare anche se stessa nella feroce critica, impietosa.
Mi piace chiudere questo mio breve scritto con l’immagine che meglio di tutte riassume la straordinaria e lucida ironia dell’artista: una massaia, forse una cameriera, una donna piuttosto grassa e dall’aria truce (quando la guardo mi viene in mente una macellaia)… ecco, la donna si gira verso un ipotetico interlocutore fuori campo e fumettisticamente esclama: “You call that Art?”
E il sorriso a denti stretti scroscia in una cristallina risata.

Barbara Codogno

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L’identità negata: arte sul filo della memoria

Dopo Guernica di Pablo Picasso, grido d’orrore dipinto nel 1937 immediatamente dopo il bombardamento aereo della città basca e simbolo profetico di un’umanità crocifissa, la risposta dell’arte agli orrori perpetrati dall’uomo verso l’uomo e verso la Natura è apparsa intrisa di drammaticità espressiva, rasentando il muro altissimo e desolato che aveva, con la guerra, racchiuso la storia in un confine interiore che non poteva offrire vie d’uscita estetiche.
Certamente, la drammatica esemplare risposta informale di Fautrier, l’innocenza crudele della carne materica dei suoi Otages, bene pose gli artisti in guardia da una festa dell’arte, dimenticando le tracce dei passati orrori in favore di una risorta gioia di vivere.
Come la resurrezione di uno spirito senza forma, che penetrava il disordine espressivo opposto al Realismo di matrice politica, o il bacino errante del popolo umano che in Chagall vedeva l’Esilio del Creatore, ponevano la mente allertata verso un’espressività tesa nella riflessione interiore.
Erranza dell’arte e sconfitta, di fronte alla necessità di mostrare o esprimere senza furor politico e a fresco la densità dell’immane tragedia tangibile nelle macerie ancora avvolte di brina di morte.
È stata la sedimentazione lenta e il costante lavoro dei sopravvissuti a edificare il più significativo monumento all’Olocausto, un testamento vivente fatto di volti, di fatti e di parole che hanno abbattuto la scia di silenzio lasciata da un muro teologico insufficiente a offrire risposte.
Così è cresciuta generazione dopo generazione, una nuova umanità che ha ritrovato il colore della vita, espiato il peccato dell’idolatria politica e che nella memoria ha ritrovato la strada seppure drammatica di conoscere, capire e insegnare a vivere nel ricordo di tutti coloro che in ogni epoca della storia sono stati marchiati e cancellati da incomprensibili ragioni ideologiche.
Il problema della relazione arte-memoria ha il suo cuore nel nucleo più profondo della storia. E qui si rivelano i suoi percorsi velati come il suono dei versi poetici, rarefatto dissolversi nella memoria di quanti mancano all’appello: pesanti come le foglie/facce metalliche di Menashe Kadishman, insensibili alla aerea natura del vento, forgiate e adagiate nell’identità dello spazio minimale ferrigno berlinese di Libeskind.
Un silenzio eternale animato da ri-flussi di angoscia, quello del visitatore della storia. Indescrivibile orrore che ha visto, ma non vissuto.

Marta Czok pone una condizione diversa a chi accosta le sue testimonianze interiori. Nella sua pittura si avverte un richiamo al mondo irrecuperabile di chi perse la favola della vita nel momento in cui l’immaginazione è la stupita essenza della vita quotidiana. Un battito d’ali che frulla nel senso tragico della perdita della condizione labirintica e creativa dell’aurorale dimensione dell’infanzia.
Attualità tragica nel nostro immediato presente, quando più veloce appare la dissipazione del patrimonio immaginativo ben presto cancellato da una razionalità invasiva e aggressiva che abbrevia le distanze fantastiche, correndo verso le certezze del ruolo sociale.
Il percorso espressivo di Marta Czok, costruito su un gioco di identità linguistiche come la sua biografia, libanese-polacca-anglo-latina, attraverso l’ironia espressionista ereditata dal mondo fiammingo, suggellata da una sottile capacità di segno grafico, si rivela in un costante gioco speculare di immagine sottratta alla sua fonte originale. Un dialogo del pensiero che acquista la forza in essere dell’evidenza, rarefacendosi sino a materializzarsi in una forma sfuggente: questa la cromia iniziale dell’infanzia nello spettacolo spettrale di un mondo in bianco e nero.
È lo stupore che leggiamo negli occhi dei bimbi mentre costruiscono il loro mondo di fiaba, in cui sempre un’ombra sinistra da lanterna magica, allunga la notte, come nei fotogrammi di Bergman, immagine di una paura sopita ma vigile, traccia di una memoria lasciata alla deriva.
Ed è l’aspetto seriale delle immagini che, aspirando a una crescita che si interrompe ogni volta, naufraga in un silenzio implosivo che non lascia spazio all’emozione. È una secchezza stilistica da racconto kafkiano, un’attesa di risposta che non arriva ad alcun compimento.
E ci rendiamo consapevoli che siamo a contatto con l’involucro più interno dell’arte, elaborazione visiva di un pensiero che riflette nella durezza delle certezze il drammatico risvolto di una traccia della memoria collettiva.
La cancellazione dell’identità è il filo sottile che lega la memoria della storia dell’infamia, come non mai perpetrata nell’ultima guerra nazifascista. Cancellazione psicologica dei recenti passati regimi sovietici, oppure avversione per l’identità stessa, normalizzazione teologica da società ideale, crociate avviate contro l’espressione spirituale e legale di sé: da tutto questo ci fissa ancora lo sguardo della denuncia immota dei bambini dei lager e del ghetto di Varsavia, come della Roma Città aperta silenziosa e sofferente all’ombra di una croce immensa, imbrunita dalla melma del fascismo.
Memoria che stride sul vetro raschiato tracciando un messaggio di angoscia trascritto nell’invisibilità immensa della morte.
Ciò che appare dalle opere di Marta Czok è l’essenziale cifra grafica necessaria all’espressione di una delicata verità, messa a contatto con un mondo visitato dentro di sé, attraversando il riflesso inafferrabile della memoria. Strutture che parlano dell’istante in cui ogni senso scompare assieme alla vita negata, dall’attrezzo di guerra alla doccia al cianuro, trionfi eretti sul limite posto alla crescita libera, in cui l’amore per il mondo che l’infanzia ha in sé lascia il posto all’inesprimibile sgomento della solitudine.
Mai sconfitto, il sogno di vivere e di crescere riappare.
Torna alla mente la storia di Brundibar l’operetta praghese in musica scritta nel 1938 da Hans Krása su libretto di Adolf Hoffmeister ripresentata dopo varie vicende alla Croce Rossa il 23 giugno 1944, dai nazisti a Terezìn per mostrare il “programma di abbellimento” o come in un documentario qui realizzato, la benevolenza del Führer che “regala una città agli ebrei”, assieme alla munificenza nazista verso l’infanzia, che si rivelerà nello sterminio ad Auschwitz di tutti i musicisti e gli interpreti. Saranno l’alleanza di un gatto, di un passerotto e di un cane e l’aiuto di tutti i bambini della città che interverranno in favore di Annika e Pepíçek, intenti a cercare latte per la mamma ammalata, a sconfiggere l’infido mendicante suonatore d’organetto Brundibar, personaggio che lascia bene intendere dove si cela l’infernale progetto di asservimento al lavoro e alla morte.

La mamma fa dormir il caro suo tesor,
la culla dondola pensando al suo amor.

Poi verrà il giorno
quando il bell’uccellin
se n’andrà, volerà,
lascerà il suo nido.
Gli alberi crescono,
nuvole corrono,
gli anni in fretta passano.

Mammina, guardaci, siamo cresciuti ormai.
Pensa, rammenta i vecchi tempi se vorrai.
Il bagnetto facevam,
nel mastello eravam:
un bambin sì piccin e la sua sorella.
Gli alberi crescono,
nuvole corrono,
gli anni in fretta passano.
La mamma avanti va,
vuota la culla sta,
pensa al futuro quando nonna poi sarà.

Un vuoto che non lascia rimpianti tanto è reale e tangibile la memoria dell’identità immediata legata all’assenza di futuro. Non solo nella morte, ma specialmente nel trauma di continuare a vivere, come sopravvissuti e testimoni.

In questa identità di memoria crediamo sia sotteso uno dei sensi dell’arte: poesia, arte figurativa, musica che non allieta le corti di potenti e tiranni, ma che vela sotto un rimando infinito la silenziosa musica segreta che anima la vita, anche se al di là della vita.
Così come ha scritto il grande direttore d’orchestra Karel Ancérl internato e sopravvissuto a Terezìn:

“Ho sperimentato che la potenza della musica è così grande da poter portare nel suo regno qualunque essere umano che possieda un cuore e una mente aperta, da rendere possibile sopportare le più terribili ore della propria esistenza”.

Roma, dicembre 2008

Cesare Terracina

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La psicologia infantile nelle opere di Marta Czok

La psicologia infantile è la protagonista di questa raccolta di dipinti di Marta Czok; il dolore collettivo ne è solo il sottofondo. L’infante ha famigliarità con il dolore fisico, ma il suo timore non è di soffrire, bensì di essere abbandonato. Attribuisce la causa del dolore fisico, oltre che a sé, a tutto il mondo che lo circonda e che si distingue da lui progressivamente.
Dolore e piacere, in particolare tattili, sono il suo mezzo di comunicazione con il mondo, un mondo animato. Messaggi molto circoscritti di gradimento, di semplice informazione. In una coda alla cassa di un supermercato ho visto un bambino dare lievi calci alla madre per indurla a passare più in fretta, ed esortarla a far lo stesso con la cliente davanti, in modo che anche quella non indugiasse.
Una sofferenza atroce, immotivata e collettiva, quali quelle che ci presenta la storia, esula da ciò che un infante si immagina, mentre una certa crudeltà commisurata alle sue deboli forze può servire a manifestare un’intenzione ostile, ma non assumere i tratti della ferocia.
Accadde a una signora di difendere un bambino molto piccolo dalle percosse che alcuni, più grandicelli, gli stavano dando; e di domandar loro perché lo facessero. La risposta fu letteralmente: “perché ha tre anni”. Sottointeso: “… e pretende di giocare con noi, come se fosse un nostro pari”.
Una pretesa di superiorità nasce spontaneamente (sebbene non inevitabilmente) in un giovanissimo, via via che si accorge che il mondo esterno è distinto da lui, e delude il suo infantile delirio di onnipotenza.
Ma nella maggior parte dei casi questa esperienza non ha esiti distruttivi; anzi, sfocia dapprima in una ricerca di compagnia (anche immaginaria), poi in una esigenza di eguaglianza di fronte a una legge comune, infine in quella “insocievole socievolezza” sociopolitica, di cui parlava Kant.
Il vedere questa naturale evoluzione in contrapposto allo sterminio del diverso, che contraddistingue molte società “civili”, conferisce all’arte della Czok una tragicità tanto più atroce quanto meno conclamata. Questo esito possibile e terribile della storia fortunatamente si va facendo oggi più raro, combattuto da istituzioni apposite, che vorrebbero far passare tutta l’umanità da una società “chiusa” a una società “aperta”. Il cammino, tuttavia, è lento e i successi circoscritti.
Ma è consolante che chi si occupa del problema a livello politico si accorga di una artista che lo studia nelle fisionomie di bambini ancora inconsapevoli che, pure a distanza di qualche decennio potrebbero trasformarsi in aguzzini o vittime gli uni degli altri. L’arte è rivelativa e, svegliando l’opinione pubblica, potrà imprimere alla storia una direzione opposta a quella che tanta parte dell’umanità ha percorsa nel secolo XX; in parte cospicua percorre ancora.

Roma, novembre 2008

Vittorio Mathieu

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